Nel contesto della Grande Guerra, la trincea emerge come una delle più significative innovazioni tattiche, sfruttando la capacità naturale del terreno di offrire protezione dalle pallottole e dalle schegge, e allo stesso tempo di adattarsi a fungere da rifugio per i soldati. Queste fortificazioni campali, oltre a garantire copertura, consentivano un controllo ottimale della disposizione delle truppe, un aspetto cruciale per la difesa, la logistica e l’impiego delle riserve.

Nonostante l’immenso sviluppo del fronte e i milioni di soldati coinvolti, ogni battaglia rappresentava solo una frazione di un panorama più ampio. La mobilitazione totale dell’esercito era impraticabile, rendendo le trincee luoghi di attesa, spesso vicini a zone di combattimento attivo. Questa condizione di marginalità e l’incapacità di percepire l’intero quadro delle operazioni indussero nei soldati uno stato di profonda apatia, confinando la loro esistenza a quel limitato spazio visibile da una feritoia.

Le trincee, con il tempo, evidenziarono anche i limiti delle fortezze permanenti, le quali, nonostante la loro imponente struttura in cemento e acciaio, diventavano obiettivi evidenti per l’artiglieria e, una volta superate, perdevano ogni utilità. Al contrario, il trinceramento nel terreno vivo offriva la flessibilità di essere allestito ovunque e abbandonato in caso di ritirata.

Questa evoluzione tattica segnò la fine della concezione napoleonica della guerra, ancora insegnata nelle accademie militari europee. In Italia, anche il Generale Luigi Cadorna e il suo Stato Maggiore, formatisi su tattiche ormai superate, si trovarono a dover affrontare le nuove dinamiche del conflitto. La persistenza in attacchi frontali sul Basso Isonzo e sul Carso dimostrò l’inefficacia di strategie rigide di fronte a difese temporanee, flessibili e rinnovabili.

La strategia tedesca di difesa flessibile in Francia e l’attacco per valli si rivelò decisiva per gli austro-tedeschi a Caporetto. Il 24 ottobre 1917, il loro attacco coordinato superò con facilità le fortificazioni italiane, rendendole inutilizzabili e indifendibili, mentre potenti concentrazioni di fuoco annientavano le difese fisse. Questa sconfitta segnò un punto di svolta per il Regio Esercito, evidenziando la necessità di adattarsi a un nuovo modo di combattere, in cui la flessibilità e l’innovazione tattica divennero fondamentali per la sopravvivenza sul campo di battaglia.