Nell’estate del 1854, la città di Potenza in Basilicata fu teatro di una tragedia scaturita dalla paura collettiva per un’epidemia di colera. Le voci di presunti avvelenatori, che si sarebbero aggirati per la città diffondendo la malattia, trovarono terreno fertile nella popolazione già terrorizzata dal contagio. Queste dicerie furono involontariamente alimentate da un editto dell’Intendente Provinciale, destinato a combattere la diffusione di tali voci ma che finì per rafforzare i sospetti.

Il documento, infatti, puniva chi diffondeva notizie di avvelenamento o si comportava in modo sospetto presso luoghi pubblici, suggerendo implicitamente che gli avvelenatori fossero una minaccia reale. Questa percezione fu amplificata da un episodio drammatico avvenuto il 17 agosto, quando Antonia De Gregorio, una mendicante, fu brutalmente aggredita e accusata di avvelenamento dopo essere stata vista all’interno di un forno vicino alla Chiesa di S. Michele.

L’incidente scatenò una caccia all’untore che vide la popolazione trasformarsi in una folla inferocita, pronta a linciare chiunque fosse sospettato di diffondere il colera. Nonostante l’intervento dei gendarmi, che riuscirono a malapena a salvare la donna dalle mani della folla, la tensione non diminuì. La situazione degenerò ulteriormente quando qualcuno suonò le campane della chiesa di S. Michele, chiamando a raccolta i contadini dai campi, e il mercato si riempì di persone che chiedevano la morte sul rogo per la presunta avvelenatrice.

Le autorità cittadine tentarono invano di calmare gli animi, ma la furia della folla non si placò nemmeno di fronte alla notizia della morte di Antonia De Gregorio, segnata da un’aggressione di inaudita violenza. Il corpo della donna, martoriato e mutilato, divenne simbolo della follia collettiva che aveva preso possesso della città.

Il tumulto durò altri tre giorni, fino a quando l’epidemia non si mostrò meno pericolosa del temuto, ma le conseguenze di quei giorni di terrore rimasero impresse nella memoria collettiva. Un processo durato due anni contro i protagonisti della rivolta si concluse con sentenze lievi, ma l’eco di quegli eventi tragici sopravvisse a lungo nelle parole della gente, che ricordava con orrore “la femmina del veleno” e la follia che aveva portato alla sua morte.

Potenza, così come altre città colpite da epidemie, dovette fare i conti non solo con la malattia ma anche con il pericolo ancor più insidioso dell’isteria collettiva, che trasforma il sospetto e la paura in violenza cieca e inarrestabile.